Aprile 1967. Secondo qualcuno in una vita precedente sarei anche potuto essere un indiano. Non lo so. Certo è che non mostravo una grande confidenza con i primi esercizi di canoa.
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Gennaio 1969. Chissà che razza di insetto mi aveva appena punto. Ancora oggi ho quel segno, sintetizzato in una cicatrice a imperitura memoria sotto l’occhio sinistro. Più o meno quello che si intende sulla carta d’identità a proposito di segni particolari.
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Pineto 1969. Nei giubox di quell’estate: Lisa dagli occhi blu (Mario Tessuto), Non credere (Mina), Acqua azzurra, acqua chiara (Lucio Battisti), Tutta mia la città (Equipe 84), Ma che freddo fa (Nada). Alla musica ero ancora indifferente, però sulla spiaggia ci stavo.
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1971. Quello che mi chiedo è come potessi restare in pantaloni corti per tutto l’anno. Eppure era così: i primi pantaloni lunghi sono arrivati soltanto in prima media.
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1981. Il gatto si chiamava Tigre. Per il resto quelli erano i giorni nei quali ogni momento era buono per organizzare una partita, mi immaginavo un futuro da goleador e sognavo di emulare le gesta di Gerd Müller.
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Costa Rey agosto 1987. Morto a galla in acque cristalline.
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Welsberg 1989. Brindisi con Friedel, sordomuto personaggio imprescindibile in quelle giornate altoatesine. Sarà stato forse per le orecchie e il naso, ma era opinione comune che lui fosse me, soltanto molti inverni più vecchio. Non capita a tutti di incontrare se stesso nel futuro. Io ce lo avevo davanti, e ci eravamo simpatici.
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1990. Umili mansioni in cucina dopo una delle leggendarie amatriciane di Giovanni.
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1991. Esercizi di stile e improvvisazioni al pianoforte. La postura tradisce gli anni trascorsi alle prese con le scale di Hanon e con lo studio di spigolosi pezzi firmati Bela Bartok.
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